«Siamo soli nell’universo?» È una domanda che probabilmente ognuno di noi si è posto almeno una volta guardando un cielo stellato. Di notte, sotto la Via Lattea scintillante, viene naturale chiedersi se attorno a qualcuna di quelle innumerevoli stelle brilli un altro “Sole” che scalda un pianeta abitato da esseri capaci di interrogarsi come noi. La nostra Terra è un puntino blu sperduto in un cosmo immenso: la nostra esistenza sarà un colpo di fortuna unico oppure il risultato prevedibile di processi che possono ripetersi altrove? In questo articolo esploreremo due visioni opposte sulla probabilità di vita intelligente nel cosmo, applicandole al nostro vicinato galattico (entro circa 80 anni luce dal Sole) per capire quante civiltà potrebbero eventualmente popolarlo. Da un lato c’è il modello tradizionale dei “passi difficili” (Hard Steps), che dipinge la comparsa di civiltà come un evento estremamente raro. Dall’altro, un nuovo studio pubblicato su Science Advances nel 2025 suggerisce che l’evoluzione di forme di vita complesse e pensanti possa essere quasi inevitabile, a patto che il pianeta offra le condizioni giuste. Iniziamo questo viaggio cosmico tra teoria e scienza, cercando di capire se là fuori, nel buio tra le stelle, esistono altre voci oltre alla nostra.
Il modello dei “passi difficili”: la vita intelligente come rarità cosmica
Una delle teorie più influenti sul perché la vita intelligente sembri così elusiva nell’universo è nota come modello dei “passi difficili” (Hard Steps). Proposta inizialmente dal fisico Brandon Carter nel 1983, questa idea parte da una constatazione sconcertante: sulla Terra ci sono voluti circa 4,5 miliardi di anni perché comparisse una specie tecnologicamente avanzata (noi), un lasso di tempo quasi equivalente a quello disponibile prima che il Sole renda il pianeta inabitabile. Carter sostenne che questo suggerisce come l’evoluzione di esseri intelligenti richieda una serie di passaggi evolutivi estremamente improbabili, tanto che la probabilità che avvengano altrove è minima (Does planetary evolution favor human-like life? Study ups odds we’re not alone | Penn State University). In altre parole, se la nostra civiltà è arrivata solo “sul filo di lana” nel lungo corso della storia terrestre, forse è perché c’erano ostacoli quasi insormontabili lungo il percorso evolutivo.
Ma quali sono questi passi difficili? Diversi scienziati hanno provato a individuarli ripercorrendo la storia della vita sul nostro pianeta. Tra i candidati più citati ci sono ad esempio:
- L’origine della vita da materia non vivente (abiogenesi): il primo organismo elementare emerso dalla “zuppa” chimica primordiale.
- La fotosintesi ossigenica: l’evoluzione di microrganismi capaci di fotosintesi che hanno arricchito l’atmosfera di ossigeno, evento cruciale per la vita complessa.
- La cellula eucariotica: il salto dalle cellule semplici (procarioti, senza nucleo) a quelle complesse con nucleo e organelli (eucarioti).
- La multicellularità: l’aggregazione di cellule in organismi pluricellulari specializzati (piante, animali).
- L’intelligenza avanzata: l’emergere di Homo sapiens con il linguaggio, la cultura e infine la tecnologia.
Ognuno di questi traguardi potrebbe rappresentare un collo di bottiglia rarissimo. Se anche uno solo fosse altamente improbabile, ciò basterebbe a rendere estremamente esiguo il numero di civiltà nell’universo (Was the emergence of intelligent life on Earth just a fluke? Some scientists think not | Reuters). In effetti, il modello dei passi difficili prevede proprio pochissime (se non nessuna) civiltà oltre la nostra, dato che la sequenza completa di eventi necessari si verificherebbe di rado (Does planetary evolution favor human-like life? Study ups odds we’re not alone | Penn State University) (Does planetary evolution favor human-like life? Study ups odds we’re not alone | Penn State University). Il fatto che una specie intelligente come la nostra sia emersa tardi nella vita della Terra (dopo miliardi di anni di evoluzione, con il Sole che entro un altro miliardo di anni dovrebbe aumentare la sua luminosità al punto da far evaporare gli oceani) viene visto come un indizio a favore di questa rarità (Was the emergence of intelligent life on Earth just a fluke? Some scientists think not | Reuters). In pratica, secondo questa linea di pensiero la Terra potrebbe essere quasi un caso unico: un pianeta che, contro ogni probabilità, è riuscito a superare tutti gli ostacoli evolutivi prima che il tempo scadesse.
Le implicazioni di una simile visione sono profonde. Se la vita tecnologica è davvero così improbabile, il silenzio cosmico che registriamo (il famoso paradosso di Fermi, per cui dovremmo vedere tracce di civiltà aliene se fossero comuni, ma non ne vediamo) sarebbe meno misterioso: potremmo essere effettivamente soli nel nostro angolo di galassia, se non nell’intero universo osservabile. Inoltre, progetti come il SETI (la ricerca di intelligenze extraterrestri) in questo scenario avrebbero probabilità estremamente basse di successo, dato che non ci sarebbe praticamente nessuno da ascoltare nel raggio di migliaia di anni luce. È una prospettiva affascinante e inquietante al tempo stesso: significa che la nostra esistenza potrebbe rappresentare un evento quasi irripetibile, un prezioso miracolo biologico in un universo per lo più sterile. Ma è davvero così?
Il nuovo modello: la co-evoluzione tra vita e pianeta rende l’intelligenza inevitabile?
Di fronte a una visione così pessimistica, una nuova generazione di scienziati ha iniziato a chiedersi se non stessimo sottovalutando le potenzialità intrinseche della vita. Nel febbraio 2025, un team interdisciplinare di geobiologi e astrofisici della Penn State University ha pubblicato su Science Advances uno studio destinato a far discutere. La loro proposta rovescia il paradigma dei passi difficili, suggerendo che la comparsa di esseri intelligenti non sia frutto di una concatenazione di miracoli improbabili, ma piuttosto il risultato naturale e quasi inevitabile dell’evoluzione di un pianeta abitabile. In altre parole, date le giuste condizioni ambientali e sufficientemente tempo, la vita complessa troverà la strada.
Questo nuovo modello enfatizza l’intima interazione tra la vita e l’ambiente planetario durante la storia evolutiva. Gli autori sostengono che la Terra primordiale non era affatto pronta ad ospitare subito forme di vita avanzate; solo attraverso cambiamenti graduali nell’atmosfera, negli oceani e nel clima si sono aperte, passo dopo passo, le “finestre di abitabilità” necessarie per ogni grande transizione evolutiva (Does planetary evolution favor human-like life? Study ups odds we’re not alone | Penn State University) (Does planetary evolution favor human-like life? Study ups odds we’re not alone | Penn State University). Ad esempio, per poter supportare animali complessi era indispensabile che l’atmosfera raggiungesse un certo tenore di ossigeno. Questo traguardo fu ottenuto grazie ai micro-organismi fotosintetici (come i cianobatteri) che centinaia di milioni di anni fa ossigenarono gradualmente aria e oceani, trasformando un ambiente ostile in un mondo adatto a creature più grandi (Does planetary evolution favor human-like life? Study ups odds we’re not alone | Penn State University). Solo allora – sostengono i ricercatori – divenne possibile l’evoluzione di organismi multicellulari complessi e, alla fine, di specie intelligenti. La vita, in sostanza, ha dovuto aspettare che il pianeta fosse maturo.
“L’evoluzione di vita complessa può dipendere meno dal caso e più dall’interazione tra la biosfera e il suo ambiente”, spiega la geoscienziata Jennifer Macalady, co-autrice dello studio (Does planetary evolution favor human-like life? Study ups odds we’re not alone | Penn State University). Un altro autore, il geomicrobiologo Dan Mills, aggiunge che secondo il loro quadro teorico la vita intelligente non richiede una serie di colpi di fortuna per emergere, ma tende a manifestarsi “a tempo debito” non appena l’ambiente lo consente (Does planetary evolution favor human-like life? Study ups odds we’re not alone | Penn State University). “Gli esseri umani non si sono evoluti né ‘presto’ né ‘tardi’ nella storia terrestre, ma ‘al momento giusto’, quando le condizioni erano favorevoli” spiega Mills. In effetti, i dati geologici indicano che fino a circa 600-500 milioni di anni fa la Terra non aveva abbastanza ossigeno atmosferico perché potessero esistere animali complessi; di conseguenza, specie evolute come la nostra non avrebbero potuto comparire prima di quell’epoca (Was the emergence of intelligent life on Earth just a fluke? Some scientists think not | Reuters). Questo suggerisce che, dato un pianeta in zona abitabile, l’evoluzione procederà di pari passo con le trasformazioni planetarie: quando l’ambiente supera una certa soglia di complessità (ad esempio, raggiungendo un clima temperato stabile, acqua liquida, giusta chimica atmosferica), la vita farà il prossimo salto evolutivo.
Il nuovo modello dunque sposta l’attenzione: dalla rarità statistica dei breakthrough evolutivi (come vorrebbe Carter) alla tempistica con cui un pianeta rende possibili quei breakthrough. Invece di misurare la probabilità di vita intelligente in base alla breve finestra della vita di una stella (come il Sole), questi scienziati propongono di guardare ai tempi geologici di evoluzione di un pianeta (Study: Intelligent life is very common throughout the universe – Earth.com). La chiave non sarebbe un colpo di fortuna contro la corsa dell’orologio cosmico, ma il fatto che la vita “matura” insieme al suo mondo (Study: Intelligent life is very common throughout the universe – Earth.com). Se il pianeta impiega molto tempo a trasformarsi in un luogo ospitale, la vita intelligente arriverà tardi; se invece raggiunge condizioni ottimali più rapidamente, anche l’evoluzione biologica potrebbe accelerare. E soprattutto, se le condizioni non arrivano mai, la vita rimane semplice o non compare affatto. Questo spiegherebbe sia perché la Terra ha visto fiorire la complessità solo in epoche relativamente recenti, sia perché altrove potremmo trovare pianeti con biosfere giovani (ancora popolate solo da microbi) o al contrario mondi dove la vita ha avuto un rapido percorso verso la complessità.
Le conseguenze di questa nuova prospettiva sono entusiasmanti. Innanzitutto, innalza le probabilità che non siamo soli: se l’evoluzione tende a replicare schemi simili ovunque le condizioni lo permettano, molte “seconde Terre” potrebbero aver prodotto qualcosa di analogo a ciò che è accaduto qui da noi (Does planetary evolution favor human-like life? Study ups odds we’re not alone | Penn State University). Inoltre orienta la ricerca scientifica verso l’individuazione delle firme ambientali della vita: per capire se un esopianeta potrà (o poté) sviluppare vita avanzata, dovremo studiarne l’atmosfera e la storia geologica alla ricerca di indicatori chiave (come ossigeno, acqua, cambiamenti climatici periodici, ecc.). Non a caso, gli autori suggeriscono di concentrare gli sforzi nel cercare biosignature (ad esempio l’ossigeno atmosferico) nei pianeti extrasolari, e di verificare se i “passi” evolutivi considerati in passato improbabili non siano invece avvenuti più volte o in modo relativamente rapido quando le condizioni lo permettevano (Study suggests intelligent life may be inevitable) (Study: Intelligent life is very common throughout the universe – Earth.com). Insomma, la vita intelligente potrebbe essere lo sbocco naturale dell’evoluzione planetaria, più comune di quanto pensassimo. Ma quante possibilità concrete ci sono di avere dei vicini interstellari? Per rispondere, proviamo a fare due conti nel nostro quartiere cosmico.
Il vicinato galattico: quante civiltà entro 80 anni luce?
Immaginiamo di tracciare un raggio di 80 anni luce attorno al nostro Sole, abbracciando una bolla di spazio che possiamo considerare il “quartiere” del sistema solare. (Per dare un’idea, 80 anni luce corrispondono a circa 800 mila miliardi di km; è la distanza che le prime trasmissioni radiofoniche terrestri, emesse negli anni ’40, hanno coperto fino ad oggi viaggiando nello spazio!). Quante stelle e pianeti ci sono in questo volume? E quanti di questi mondi potrebbero ospitare vita intelligente secondo i modelli che abbiamo descritto?
Entro 80 a.l. si trovano alcune migliaia di stelle di ogni tipo, dalle brillanti simili al Sole alle deboli nane rosse. Grazie alle missioni di ricerca degli esopianeti (Kepler, TESS ecc.), sappiamo che i pianeti sono comuni. Finora sono stati scoperti oltre 5.800 esopianeti confermati attorno a stelle vicine e lontane, e molti di questi sono mondi rocciosi simili alla Terra (Was the emergence of intelligent life on Earth just a fluke? Some scientists think not | Reuters). Le stime oggi suggeriscono che circa la metà delle stelle possieda almeno un pianeta di dimensioni paragonabili alla Terra situato nella “zona abitabile” – ovvero a una distanza tale da poter avere acqua liquida in superficie (Was the emergence of intelligent life on Earth just a fluke? Some scientists think not | Reuters). Facendo un po’ di matematica, ciò implica che nel raggio di 80 anni luce potrebbero esserci qualche centinaio di pianeti potenzialmente abitabili (ovvero candidate Terre con condizioni adatte alla vita). Non stiamo parlando di fantascienza: alcune secondi Terre nei dintorni le abbiamo già individuate. Per esempio, il sistema TRAPPIST-1, a circa 40 a.l. da noi, ospita ben 7 pianeti rocciosi di cui 3 situati in zona abitabile; oppure Proxima b, un pianeta di massa terrestre che orbita nella zona temperata della stella più vicina al Sole (Proxima Centauri, a soli 4,2 a.l. di distanza). Insomma, i bersagli non mancano nel nostro cortile galattico.
Ora, cosa predicono i due modelli per questi possibili mondi abitabili vicini?
- Secondo il modello dei “passi difficili”, anche se decine o centinaia di pianeti entro 80 a.l. fossero simili alla Terra, quasi nessuno avrebbe percorso per intero il sentiero improbabile verso l’intelligenza. Potremmo benissimo essere l’unica civiltà tecnologica in questa regione di spazio – un faro solitario in un grande vuoto. In termini numerici, la probabilità è così bassa che nessun altro pianeta nel campione avrebbe superato tutti i “filtri” evolutivi. Forse una sola altra civiltà potrebbe esistere, ma molto probabilmente zero (oltre alla nostra). Questo scenario equivarrebbe a una solitudine cosmica su scala locale: anche nei sistemi stellari a noi vicini troveremmo al massimo forme di vita semplici (microbi, alghe) ma nulla di paragonabile a una società avanzata in grado di comunicare.
- Secondo il nuovo modello della co-evoluzione, invece, ogni pianeta che abbia caratteristiche simili alla Terra e abbastanza tempo a disposizione ha buone chance di sviluppare vita complessa e forse intelligente. Ciò non significa che tutti lo faranno – fattori casuali e catastrofi possono sempre intervenire – ma la percentuale prevista è di gran lunga più alta. Se, ad esempio, anche solo il 10% dei pianeti abitabili nel raggio di 80 a.l. avesse prodotto una civiltà tecnologica, staremmo parlando di diverse decine di civiltà (ipotizzando ~100-200 pianeti abitabili, il 10% fa 10-20 civiltà). E questo è un calcolo conservativo: il nuovo modello darebbe adito perfino all’idea che la maggior parte dei pianeti tipo Terra, prima o poi, possa generare qualche forma di intelligenza. In uno scenario ottimistico, entro la nostra bolla locale potrebbero esistere dozzine (se non centinaia) di civiltà a vari stadi di sviluppo. Anche ipotizzando percentuali più modeste (1%–5%), avremmo comunque più di una “voce” aliena nel coro cosmico intorno a noi.
Possiamo riassumere questo confronto con una semplice tabella di scenario:
Modello | Civiltà intelligenti attese entro ~80 a.l. |
---|---|
“Passi difficili” | Quasi zero. Forse 1 (noi stessi), probabilmente nessun’altra. |
Evoluzione inevitabile | Molte. Possibilmente diverse decine (fino a ~10–50+ civiltà, a seconda delle stime). |
Naturalmente, questi numeri sono puramente indicativi e ipotetici, ma illustrano bene il divario enorme tra le due visioni. Nel primo caso l’universo vicino a noi sarebbe praticamente privo di altre intelligenze; nel secondo caso sarebbe popolato da numerosi vicini (anche se sparsi su decine di anni luce) che magari ancora ignoriamo.
Rarità contro abbondanza: implicazioni, SETI e il paradosso di Fermi
Queste due prospettive contrapposte portano a implicazioni molto diverse per la ricerca scientifica e filosofica della vita extraterrestre. Se i “passi difficili” hanno ragione, la conclusione amara è che probabilmente siamo davvero soli – quantomeno nella nostra porzione di galassia. Il paradosso di Fermi, in tal caso, trova una spiegazione semplice: non vediamo (né sentiamo) altre civiltà perché non ce ne sono nei dintorni. La vita intelligente sarebbe così rara che la distanza media tra due civiltà potrebbe essere enorme (magari milioni di anni luce!). Questo scoraggerebbe un po’ le ricerche SETI: se le probabilità di intercettare un segnale artificiale sono vicine allo zero, ha senso investire risorse? Una possibile risposta è che, per quanto improbabile, la scoperta di anche una sola civiltà aliena sarebbe talmente rivoluzionaria da giustificare comunque la ricerca. Inoltre, il modello dei passi difficili non esclude del tutto l’esistenza di altri – dice solo che sono rari. Dunque continuare a cercare sprazzi di intelligenza nel buio cosmico resta scientificamente valido, anche solo per confermare definitivamente questa ipotesi di rarità estrema.
Dal punto di vista filosofico ed etico, un universo vuoto di altre voci assegnerebbe a noi umani un ruolo davvero speciale: saremmo i custodi di tutta la coscienza conosciuta. Ciò darebbe ancora più peso alla responsabilità di preservare la vita e la mente sul nostro pianeta, perché in caso di nostra scomparsa l’oscurità tornerebbe a regnare senza testimoni senzienti. Uno scenario da soli contro il cosmo, che può incutere un certo timore ma anche un senso di preziosità: in un universo sterile, ogni civiltà è inestimabile.
Se invece il nuovo modello ha ragione, le implicazioni sono diametralmente opposte e, per certi versi, ancora più intriganti. Un cosmo brulicante di vita intelligente (o quantomeno predisposto a svilupparla) ci dice che potremmo non aver cercato abbastanza o nel modo giusto. Il paradosso di Fermi in questo caso si fa più stringente: se là fuori ci sono decine di civiltà vicine, perché non ne rileviamo i segnali? Le possibili risposte spaziano dal tecnologico al sociologico. Forse stiamo ascoltando le frequenze sbagliate o i segnali sono deboli e difficili da distinguere dal rumore. Oppure molte civiltà possono essere a uno stadio di sviluppo diverso (più primitive, o al contrario talmente avanzate da usare tecnologie di comunicazione per noi indecifrabili). Non è escluso neppure che le civiltà intelligenti abbiano una durata limitata – ad esempio, tendono ad autodistruggersi o a spegnersi dopo pochi secoli di era tecnologica – il che le renderebbe sfuggenti nel tempo oltre che nello spazio. Questa idea è a volte chiamata “Grande Filtro” futuro: anche se la vita intelligente emerge spesso, potrebbe spegnersi rapidamente, riducendo il numero di civiltà contemporanee rilevabili. Un altro spunto è che magari sono lì ma scelgono di non farsi notare (pensiamo a eventuali protocolli di silenzio cosmico, o semplicemente alla difficoltà di stabilire un contatto con specie molto differenti).
Per la scienza, uno scenario di abbondanza implica un forte incentivo a intensificare la ricerca. Se riteniamo plausibile che più civiltà popolino la galassia, vale la pena investire in radiotelescopi più sensibili, ascoltare una banda di frequenze più ampia, cercare segnali di tecnologie aliene (le cosiddette technosignature, come trasmissioni laser, strutture megascale, anomalie atmosferiche da inquinanti industriali). Allo stesso tempo, dovremmo approfondire lo studio dei pianeti extrasolari: il nuovo modello suggerisce di cercare schemi ricorrenti nell’evoluzione planetaria. Ad esempio, se troviamo un pianeta con tracce di ossigeno nell’atmosfera e climi stabili da miliardi di anni, quello potrebbe essere un candidato dove la vita ha avuto terreno fertile per progredire. Missioni come il telescopio spaziale James Webb (JWST) e i futuri osservatori dedicati (come l’Extremely Large Telescope da terra, o concetti di telescopi spaziali con coronografi per immagini dirette di pianeti) saranno fondamentali per annusare le atmosfere di mondi lontani in cerca di biosignature e, chissà, magari anche technosignature. Sapere che l’evoluzione tende a replicarsi può aiutarci a capire cosa cercare: ad esempio, una combinazione di gas tipici della vita (ossigeno + metano) potrebbe indicare una biosfera attiva; emissioni anomale di radioonde o laser potrebbero segnalare una civiltà tecnologica. In sintesi, il nuovo modello incoraggia un ottimismo cauto: non siamo un’anomalia irripetibile, dunque vale la pena cercare i nostri vicini cosmici con tutti gli strumenti a disposizione.
Conclusioni: soli o accompagnati sotto il cielo stellato?
Alla fine del nostro viaggio tra teorie e dati, torniamo alla domanda iniziale con una consapevolezza in più. Siamo soli nell’universo? La scienza, per ora, non ha una risposta definitiva, ma ci offre due possibili scenari illuminanti. Nel primo, potremmo essere praticamente unici: figli di una serie di coincidenze così poco probabili che difficilmente si ripeteranno altrove. Nel secondo, non saremmo affatto soli: molte altre civiltà potrebbero costellare la galassia, magari distanti e silenziose, ma presenti.
Quale dei due è vero? Forse la verità sta nel mezzo, o forse uno dei modelli prevarrà con nuove scoperte. La bellezza del metodo scientifico è che ogni ipotesi è provvisoria: nuove evidenze osservative nei prossimi anni potranno avvicinarci alla risposta. Immaginiamo l’emozione se rilevassimo un segnale radio artificiale proveniente da una stella vicina, confermando che non siamo soli. Oppure, al contrario, se scrutando migliaia di pianeti non trovassimo alcun segno di vita intelligente, dovremmo accettare l’idea di essere un’eccezione rara – il che renderebbe la nostra esistenza ancora più preziosa. In entrambi i casi, l’umanità avrà imparato qualcosa di profondo sul proprio posto nel cosmo.
Nel frattempo, ogni volta che alziamo lo sguardo al cielo notturno, possiamo ricordarci che quella distesa di stelle rappresenta sia una possibilità di compagnia che una sfida alla nostra solitudine. Come scrisse una volta il celebre divulgatore Carl Sagan, “Da qualche parte, qualcosa di incredibile è in attesa di essere scoperto.” Sia esso un segno di vita oltre la Terra o una rinnovata consapevolezza della nostra unicità, continueremo a cercare. Perché, in fondo, fa parte della natura umana porsi domande e spingersi oltre i confini dell’ignoto, nella speranza di trovare, magari dietro la prossima stella, una risposta al grande enigma della vita.